Trauma Plastico

tempo di lettura: 22 min

[L’articolo letto da me: ▶️ Abbiate pietà.]

Qualche giorno fa, beato come uno scoiattolo con la ghianda in bocca, ero lì pronto a scrivere un nuovo articolo. Sedia in terrazza, sole in faccia, computer sulle ginocchia, dita sospese sui tasti e pronte a colpire, tazzona di caffè a portata di zampa. E questo argomento in testa: l’acqua nelle bottiglie di plastica perfavore porcamiseria no.
Doveva essere un articolo semplice e paciarotto. Sennò poi chi legge pensa cheppalle questi fissati ambientalisti ecoterroristi. E va a sversare acido di batteria nei tombini, per ripicca.

Avevo pure il mio schemino, buttato giù qualche ora prima in un bar su un tovagliolo Segafredo.

Punto uno: pianeta sepolto da rifiuti plastica. Punto due: bere acqua rubinetto e/o acqua distributori. Punto tre: bottiglia riutilizzabile x portarsi acqua in giro. Punto quattro: smetterla di farsi pigliare x il culo da plinplin, passerotti parlanti e altissimepurissime. Punto cinque: smetterla di farsi pigliare x il culo da plinplin, passerotti parlanti e altissimepurissime.

Ho cominciato a scrivere. Con tono incravattato da medico che spiega cosa sono le emorroidi, ho raccontato della quantità abnorme di rifiuti di plastica che la nostra cosiddetta civiltà sta producendo. In stato di estasi, ho composto una lode all’acqua del rubinetto che neanche Keith Richards con la bamba. In perfetto stile da catalogo di ferramenta, ho descritto la mia inseparabile bottiglia d’acciaio – isolamento termico verniciatura antiscivolo e antigraffio praticamente indistruttibile costo euro quindici – che uso per portare in giro l’acqua al posto di quelle bottigliacce di plastica là.

Lo scoiattolo stava ormai rosicchiando con gusto la sua ghianda. Chi avrebbe immaginato che, di lì a poco, gli sarebbe esplosa tra i denti?

L’inversione del karma è iniziata quando sono andato a correre. Già. È vero che l’articolo stava prendendo forma, ma era la forma di un bel cuscinone. Di quelli che, appena ci appoggi su la testa, ti risucchiano in un sonno di piombo da cui ti liberano tre giorni dopo, in stato confusionale. Non proprio il massimo per un articolo che, nel suo piccolo, mirava a risvegliare la coscienza ecologista dell’umanità, svuotare le discariche e bonificare gli oceani. Ho pensato: oltre a un cambio di marcia alla bersagliera sullo stile, qui serve una ricerca, servono dati che confermino le mie parole, serve un’analisi più approfondita del fenomeno del consumo di acqua in bottiglia di plastica e dell’impatto ambientale che ne consegue.

Niente che potessi fare prima di andare a correre, però. Perché già da un po’ la mia forza di volontà e la mia capacità di concentrazione si erano prese per mano ed erano uscite per andare a sbronzarsi.

A questo punto è necessaria una precisazione: quel che è successo durante la corsa è successo per davvero. Non l’ho ricostruito io in funzione di questo articolo.

Dieci minuti più tardi sono partito.

E di lì a poco, nel bosco più bosco che ci sia, sperduto su uno sperduto costone di una collina sperdutissima, cosa non sono andato a trovare?

Eccola lì. La bastarda. Che qualche bastardo più bastardo di lei aveva pensato bene di buttare via così.

La ghianda ha cominciato a scalciare.

Io ho fatto quel che andava fatto: incazzarmi come una iena e raccogliere la bottiglia per portarla via.

Nonostante i problemi di assetto, schivando gli sguardi cazzofai di un paio di anziane signore appostate sugli usci di casa, ho raggiunto una piccola frazione e il suo bidone per la raccolta della plastica, dove la bottigliaccia ha fatto la fine che meritava.

Poi sono tornato a casa con la scimmia sulla spalla. Tra l’altro, questo articolo lo sta scrivendo lei.

Vi risparmio le foto della doccia.

Mezz’ora più tardi ero di nuovo al computer, a fare quella ricerca. È lì che la ghianda, infine, è esplosa.

Sono sempre stato sensibile alla questione dell’inquinamento ambientale, nelle sue varie forme: e l’effetto della plastica sull’ecosistema è una delle più diffuse ed evidenti. Per questo mi ritenevo abbastanza ben informato sull’argomento e, tutto sommato, pensavo di avere lo stomaco forte a sufficienza per digerire la brutalità di certi numeri e di certe immagini. Mi sbagliavo. La portata della devastazione che la plastica sta infliggendo al nostro pianeta va oltre ogni connotazione di enormità che ci si possa sforzare di darle, e sfocia direttamente nella tragedia.

Qui di seguito, alcuni di quei dati. Non serve neanche commentarli. Se mai dovessero avere su chi li leggerà anche soltanto una piccola parte dell’effetto che hanno avuto su di me, sono sicuro che l’acqua in bottiglia di plastica avrà qualche utilizzatore in meno, d’ora in avanti.

Da Il Fatto Quotidiano:

Più di 900 Empire State Building al giorno: tanta è la plastica che viene prodotta nel mondo. Ogni anno vengono utilizzate 500 miliardi di buste di plastica, mentre si acquista 1 milione di bottiglie di plastica ogni minuto, pari al 10% dei rifiuti di tutto il pianeta.

Da Sky TG24:

Nel 2016, in Europa, oltre 27 milioni di tonnellate di rifiuti plastici sono stati raccolti attraverso sistemi ufficiali di smaltimento, con un aumento del 5% dal 2014. Di questi 27 milioni, però, soltanto il 31,1% è stato riciclato.

Da Legambiente:

Sono oltre 8 miliardi le bottiglie in plastica vendute ogni anno nel nostro Paese. Gli Italiani consumano, primi nel mondo, 206 litri di acqua in bottiglia pro capite l’anno.

Per produrre 1 kg di PET, da cui si ricavano 25 bottiglie da un litro e mezzo, servono 17 litri d’acqua e 2 litri di petrolio. Una filiera insostenibile che, sommando tutti i passaggi di produzione e distribuzione, consuma un’energia circa 2.000 volte superiore a quella necessaria per ottenere la stessa quantità d’acqua da un rubinetto collegato a un acquedotto.

Da BioEcoGeo:

Bisogna considerare anche l’impatto dei trasporti. Circa l’80% dei trasporti nel nostro Paese avviene su gomma e i tir messi in circolazione solo per il mercato delle acque confezionate si stimano essere circa 300.000. La percorrenza media è di 1.000 km e il consumo medio è di 1 litro di gasolio per 3 km, per un’emissione totale di 265.000 tonnellate di anidride carbonica.

Da Wikipedia:

A partire dagli anni Novanta, è stato identificato un ammasso di rifiuti galleggianti costituiti prevalentemente da frammenti plastici di dimensioni inferiori ai 5 millimetri, in una zona estesa almeno 1 milione di km² nell’Oceano Pacifico, battezzata Pacific Garbage Patch.

Da WWF:

Ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani del mondo e, ad oggi, si stima che in essi vi siano più di 150 milioni di tonnellate di plastica. Anche il Mediterraneo sta diventando una “zuppa” di plastica. Si stima che 1 km² nei mari italiani ne contenga in superficie fino a 10 kg.

foto da phys.org

Sulla zuppa di plastica mi fermo. È davvero indigeribile. E mi chiedo, ancora una volta, cosa posso fare, io, di fronte a una situazione così grave.
Rimandare la zuppa in cucina? Impossibile: è sparsa su tutto il pavimento e sui tavoli e sulle sedie e sui mobili e sui banconi e sui davanzali e sui nostri vestiti e perfino nelle tasche e fuori in strada e dappertutto in paese e dappertutto in città e in tutti i paesi e in tutte le città e nei prati e sulle montagne e nei fiumi e nei mari. E comunque lo chef se ne sbatte le palle.
Trascinarmi in un angolo e stare lì a fissare il vuoto e abbracciarmi le ginocchia? Deprimente e inutile. E già fatto.
Asciugarmi la lacrima, ordinare il dolce e affrontare, come posso, questa follia? Scelgo questo. E la torta di mele.

La plastica non è semplicemente un materiale: è un elemento culturale. Il suo utilizzo è integrato nella struttura stessa della nostra società. Che è la società dei consumi, basata su un principio fondamentale: consumare sempre di più per produrre sempre di più. In questa logica a spirale discendente, il concetto di usa e getta ha perfettamente senso. Anzi, diciamola tutta: è un’invenzione geniale. Facciamoli bere da una bottiglia di plastica, pagata a peso d’oro, che butteranno subito via. (Magari in un bosco.) E di quella carcassa lì non ci riterremo responsabili. Poi così ne acquisteranno un’altra, che berranno e butteranno. E poi un’altra e un’altra e un’altra ancora. Per tutta la loro vita. Moltiplicato per i tre miliardi di vite, miliardo più miliardo meno, dei potenziali clienti che condividono le “meraviglie” di questo nostro sistema, oh: sono montagne di soldi. E oceani di rifiuti.

Ora, qui occorre essere idealisti. A costo di sembrare ingenui. Perché bisogna pur immaginarselo, il mondo migliore in cui si vorrebbe vivere.
È impensabile l’idea di sradicare un comportamento, per quanto sciagurato possa essere, dalla cultura che l’ha generato e che lo custodisce. Però lo si può condannare, indebolire, delegittimare. E intanto proporre alternative.
Ogni volta che io incontro qualcuno con la sua cazzo di bottiglia di plastica, per esempio, scateno un’operazione di sottile logorio psicologico in tre fasi. Fase uno: raffica di occhiatacce all’indirizzo di quel qualcuno e della bottiglia letale. Fase due: estrazione dallo zaino della mia bottiglia d’acciaio e trionfante esibizione della stessa. Fase tre: alternarsi di lunghe e compiaciute sorsate d’acqua, anche se non avevo sete, e atteggiamenti di ostentata superiorità. Uno spettacolo penoso, insomma. Tanto più che il qualcuno si è già allontanato, senza accorgersi di nulla. Ma vabbè. Il punto è che io ho fatto qualcosa per sostenere la mia idea. E così l’ho spinta un po’ più avanti sulla sua strada.

Le rivoluzioni partono sempre dai margini, dalle anomalie di funzionamento, dal nuovo non previsto. Da pochi individui non conformati e molto determinati che si raggruppano intorno a un’idea nuova, ancora ignorata o non capita o respinta dalla massa. Tipo, appunto, l’acqua nelle bottiglie di plastica perfavore porcamiseria no.
Ché poi la massa è sempre, per definizione, conformista e ostile alle novità. È un comportamento istintivo, un retaggio evoluzionistico fin dalle origini. Se un bel giorno, centocinquanta milioni di anni fa, all’animaletto che vive sull’albero gli gira di scendere un attimo a terra a fare due passi e sgranchirsi le zampe, perché tanto cosa gli potrà mai succedere, ci sono buone probabilità che diventi il pranzo del Velociraptor. Mentre il suo vicino Prudenzio, che rimane sul ramo a grattarsi la panza, sopravviverà e metterà al mondo tanti Prudenzini che proseguiranno la tradizione di famiglia. E così ciao ciao alla stirpe di Duepassi, mentre i Prudenzio ancora stanno sul ramo.
Questo, però, non è sempre vero: quando cambia qualcosa nell’ambiente circostante, sopravvive chi ha le caratteristiche giuste per adattarsi al cambiamento.
Se quello stesso bel giorno, centocinquanta milioni di anni fa, ai piedi dell’albero arriva Er Motosega, l’incazzosissimo cugino boscaiolo del Velociraptor, Prudenzio farà una bruttissima fine insieme all’albero e al ramo, mentre Duepassi, che ha preso gusto ad andarsene a zonzo, si salverà.
Vale la pena notare che la specie umana esiste proprio perché un bel giorno, sette milioni di anni fa, un nostro antenato è sceso dall’albero in cerca di miglior fortuna.
Sul fatto che qualcosa di profondo non solo sia cambiato, ma si sia proprio spezzato, nel rapporto tra l’Uomo e la Natura che lo ospita, non ci sono più dubbi. Altro che Er Motosega: qui è arrivato Er Mortenera. Bisogna scendere in fretta, se non altro, da quell’albero del milione di bottiglie di plastica vendute ogni minuto nel mondo, e scappare via verso una visione completamente nuova dell’esistenza. Questo significa, oggi, adattarsi per sopravvivere. Rimanere sull’albero facendo finta che vada tutto bene è una condanna sicura ad essere abbattuti. Significa arrendersi all’idea di un’imminente non-più-Vita sul nostro Pianeta.
(Com’è che ho tirato fuori questa stronzata di Duepassi, Prudenzio e Er Motosega in un articolo sull’emergenza ambientale? Comunque la cancellerò prima di pubblicare. E scusami, Darwin.)

La tribù umana globale è composta da due parti ben distinte: una massa enorme di individui che seguono regole, logiche e comportamenti predefiniti, senza mai sentire il bisogno di metterli in discussione, e un gruppo molto più piccolo di persone che, invece, sono predisposte alle novità e ai cambiamenti. Per dire: il megaesercito delle bottiglie di plastica, con i suoi carrarmati e i suoi bombardieri, e la banda dell’acqua del rubinetto, sul pullmino Volkswagen, con birre e chitarre.
E sono sempre questi ultimi che fanno propria l’idea nuova fuori dagli schemi. Che cominciano a crederci per davvero, a sostenerla, a condividerla, a spiegarla, a modificare le proprie abitudini per metterla in pratica, a battersi per essa.

Il mondo è invaso dalla plastica perché la plastica, come spesso accade per le cose dannose, è molto pratica. E ciò, nella maggior parte delle persone, prevale di gran lunga sulla valutazione delle conseguenze che derivano dal suo utilizzo indiscriminato. Quindi, soltanto un altro modello altrettanto pratico potrebbe affermarsi come valida alternativa. Purché la qualità dell’esperienza legata al nuovo modello non sia inferiore rispetto al precedente. Altrimenti, campa cavallo.
Ho un bel dire che bisogna sostituire la bottiglia di plastica con una bottiglia riutilizzabile, o con una brocca di vetro da mettere in tavola. Il fatto è che devo anche pensare a quel che ci metto dentro. Per me che vivo in mezzo alla natura, ai piedi delle montagne, riempirla con ottima acqua del rubinetto o addirittura con acqua di sorgente è una scelta molto semplice da fare. Ma per chi si ritrova un’acqua del rubinetto che sa di piscio di pipistrello, nonostante rientri nei parametri di potabilità, il discorso è ben diverso. Il modello alternativo all’acqua in bottiglia di plastica che si vuole proporre deve tenerne conto.

C’è questo pensiero che mi sbatte in testa fin dalla prima riga che ho scritto: lo so che esistono luoghi in cui l’acqua proprio non c’è. Altro che avere il gusto di piscio di pipistrello. Ma qui si apre tutto un altro discorso, altrettanto tragico, che andrebbe affrontato a parte. Non si tratta più di individui chiamati a modificare un’abitudine sbagliata, ma di istituzioni che devono assumersi la responsabilità civile e sociale che gli compete e praticare i necessari interventi strutturali per risolvere il problema.
Questo misero articolo non ha certo la pretesa di affrontare ed esaurire tutte le tematiche legate a un argomento così vasto e complesso.

Esistono validi sistemi domestici per il trattamento dell’acqua del rubinetto.
Primo fra tutti la caraffa filtrante, che riduce o elimina il gusto di cloro, rende l’acqua più leggera e dolce e trattiene le impurità grossolane.

foto da brita.it

Il suo funzionamento si basa sull’utilizzo di un filtro composto di resine sintetiche con un meccanismo a carboni attivi, che va sostituito periodicamente. A livello indicativo, il costo di una di queste caraffe si aggira intorno ai 20 euro, mentre quello di una confezione di dodici filtri, che serve in media a coprire l’utilizzo di un anno, si aggira intorno ai 40 euro.

Un altro utile sistema domestico per il trattamento dell’acqua del rubinetto è il gasatore, che permette di ottenere acqua frizzante attraverso l’aggiunta di anidride carbonica mediante una bomboletta.

foto da sodastream.it

Il costo indicativo di un modello base si aggira sui 60 euro, mentre quello di una bomboletta per la ricarica, che permette di gasare circa 80 litri d’acqua, si aggira sui 25 euro.

Ci sono poi i distributori di acqua alla spina.
Quelli pubblici, sono ormai presenti in moltissimi comuni.

foto da acquanewtech.com

Forniscono acqua naturale e frizzante, a temperatura ambiente e refrigerata, ad un prezzo, in genere, di 3 centesimi al litro per l’acqua naturale e di 5 centesimi al litro per quella frizzante. Bisogna soltanto tenere conto del fatto che questi impianti sono collegati alla rete idrica comunale, alla cui acqua viene somministrato un ulteriore trattamento di affinamento, filtraggio e igienizzazione.
Per quanto riguarda i distributori di acqua situati negli esercizi commerciali, degna di nota è l’iniziativa della catena di negozi NaturaSì, specializzata in prodotti biologici e biodinamici, che ha lanciato in tutti i propri punti vendita in Italia un’iniziativa per liberare il pianeta dalla plastica, in collaborazione con Legambiente e con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente. Tra le altre cose, sono stati allestiti distributori di acqua filtrata e vitalizzata, anche in questo caso naturale e frizzante ed eventualmente refrigerata. Il prezzo è di 10 centesimi al litro. Inoltre vengono proposte per il rifornimento soltanto bottiglie di vetro e borracce riutilizzabili.

foto da naturasi.it

Penso che questo sia un esempio molto significativo di ciò che dovrebbe fare ogni centro commerciale, ogni negozio o chiosco o bancarella di generi alimentari, ogni pubblico esercizio. Un esempio di impresa, grande o media o piccola che sia, che va a soddisfare una richiesta di mercato crescente, seppure ancora limitata, con una serie di prodotti concepiti in una prospettiva di ecosostenibilità.
È di fondamentale importanza che questo tipo di offerte, rivolte a chi è interessato ad adottare un nuovo modello di consumo responsabile, aumentino sempre di più. Eccola qua, una delle idee nuove di cui il mondo ha più bisogno, oggi.

Per concludere, la metto giù leggera leggera: bisogna cominciare a considerare la plastica come il male assoluto e cercare di eliminarla dalle nostre vite, con feroce determinazione, ogni volta che è possibile, sostituendola con alternative compatibili con la nostra sopravvivenza.
Il gesto virtuoso di rinunciare alle bottiglie di plastica, e l’impegno a diffonderlo, non risolvono di per sé il problema dell’inquinamento devastante causato dalle molteplici applicazioni di questo orribile materiale, certo. Ma rappresentano un passetto nella direzione giusta, che ciascuno di noi può decidere di fare in qualsiasi momento.
Bastano un po’ di intraprendenza e di spirito di adattamento, per vincere quella naturale resistenza al cambiamento che spesso è l’unico vincolo che ci tiene legati ad abitudini distruttive.
E il passo successivo, o quello dopo, o quello che verrà dopo altri mille, potrebbe essere il passo decisivo, per la definitiva affermazione della nuova abitudine. Magari non saremo noi a farlo, quel passo: sarà chissà chi, chissà dove. Ma sarà il passo che innescherà la scintilla giusta.

Ogni piccolo gesto, ogni minima attenzione, ogni nuova idea virtuosa che si prova a mettere in pratica è una fase di avvicinamento a quel momento. Ed è anche un’indispensabile premessa alla futura diffusione di un’autentica, universale coscienza ecologista.

La plastica, senza se e senza ma e senza vabbè e senza gnegnè, ci sta distruggendo. O noi o lei.
Dal plinplin al fancul il passo non è mai stato così breve.

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