
Vivo in un piccolo paese di collina, a due passi dalle montagne. Un paese unico, come ce ne sono tanti. Il campanile, la piazzetta, il bar. Gente semplice, saggezza preziosa, qualche idiota, gli immancabili pettegolezzi. Boschi e prati tutto intorno. Di qui è passata anche la Grande Storia, tre secoli fa, quando gli abitanti si ribellarono ai Savoia, che reagirono poi con una durissima repressione.
Tutto questo, in un modo o nell’altro, mi è entrato nel sangue.
Il senso delle vicine montagne, innanzitutto, che distendono fin qui le loro pendici, come le vesti lunghe e ampie di quelle eleganti signore di un tempo. Questo è un territorio cucito sull’orlo dell’abito di una roccia. Il mio paese è andato a piazzarsi proprio ai suoi piedi, come un gatto che si accoccola sulle caviglie della padrona di casa. Così si è ritrovato in salita. E noi con lui.
Tutta la mia vita, qui, ha avuto a che fare con la salita. Quella che vedo da sempre nei profili delle alture e dei fossi. Quella che ho percorso migliaia di volte da bambino, quando tornavo a casa. Quella che percorro quando torno a casa oggi, ancora più lunga e più ripida. Quella su cui corro. Io amo la salita: fa parte di me.
Il campanile, la piazzetta e il bar sono i simboli, nel bene e nel male, del genere di microcosmo a misura d’uomo in cui meglio mi riconosco. Sono pezzi del mosaico semplice di scorci, ambienti e sensazioni che compongono lo sfondo delle mie esperienze.
Ho vissuto per alcuni anni in una grande città e ricordo bene la mia difficoltà ad affrontare quell’abbondanza di luoghi, oltre che di persone. Ero spaesato, proprio in quanto privato del mio paese, dei suoi riferimenti essenziali. Mi sono sempre sentito a disagio di fronte ai dedali di strade, alle moltitudini di edifici, all’ampia scelta di ristoranti cinema eventi. Ogni volta che mi trovo in un luogo vasto, ricreo un mio ambiente minimale, fatto di punti di riferimento selezionati: quella piazza, quel locale, quelle persone. E quando vado in giro in quel luogo, quando esploro, lo faccio con lo spirito dell’escursionista, che abbandona la base per farvi ritorno a gita terminata.
La semplicità della gente è diventata anche la mia: in essa ha avuto origine il bisogno di essenzialità che sento così forte in me. E quella particolare saggezza che qui profuma di terra, sole e vento, per via del vincolo strettissimo che da sempre la lega alla natura, è per me un riferimento supremo: ho imparato prima a riconoscerla, poi a rispettarla, poi ad ammirarla e infine a venerarla.
Boschi e prati sono il mio habitat, il mio spazio ideale. Quando voglio muovermi, riflettere, digerire un pasto abbondante, rilassarmi, prendere una decisione, godermi un’emozione, o smaltirla, è in un bosco o in un prato che vado a infilarmi. Allora asfalto e cemento sono intollerabili più che mai: diventano la mia kryptonite, che deprime questo Superman in versione New Age bisognoso di alberi, erba e fiori.
La mia familiarità con la natura viene proprio da quella frequentazione così intima e assidua, iniziata nell’infanzia, mai interrotta, e poi maturata come un frutto, uno dei tantissimi frutti generati da questa terra.
Lo spirito di ribellione dei miei antenati compaesani è un’eredità impalpabile arrivata fino a me attraverso il tempo e le generazioni. O almeno mi piace crederlo.
Non sono un ribelle nel senso più comune del termine: nessuna avventura alla Easy Rider, nel mio curriculum, né fughe da casa o cattive compagnie o capelli verdi (ma lunghi sì) o trip devastanti o matrimoni con spogliarelliste. Ho sempre avuto massima libertà di agire, e anche di sbagliare: fin da subito mi è stata concessa dalla mia famiglia, poi l’ho ottenuta dalla vita che mi sono scelto. In quella libertà, prima ancora che nelle situazioni in cui esercitarla, ho trovato e trovo il mio segno distintivo.
Mi sono sganciato dall’influenza di dottrine religiose e di impianti morali a cui obbedire tout court. Agisco secondo coscienza, in funzione dell’unico principio che riconosco come universale: la mia libertà finisce dove inizia la libertà degli altri. E nelle azioni che compio cerco un’armonia con la natura, con l’anima del mondo e, quando è possibile, con gli altri esseri umani. Tutto il resto è inutile sovrastruttura. Questa è la mia religione e la mia morale insieme.
Insomma: se mi sento di fare qualcosa, lo faccio. Non ci sono vincoli, se non me stesso e il rispetto per ciò che è Vita, e dunque non c’è senso di ribellione, di trasgressione, di rottura. C’è solo azione, pura e semplice. Se vivi in un recinto e hai voglia di andartene, non puoi far altro che scavalcarlo o abbatterlo; se invece vivi fuori dal recinto e hai voglia di andartene, basta che tu ti muova e vada.
D’altra parte, obbedisco alle leggi civili, poiché a questa civiltà appartengo: quelle leggi regolano la vita di tutti, che lo si voglia o no. Cerco semmai di averci a che fare il meno possibile.
E tuttavia
un recinto, da scavalcare o da abbattere,
alla fine l’ho trovato anch’io. Ho deciso di scavalcarlo. La cosa strana è che l’ho avuto sempre intorno a me e non me n’ero accorto. In una memorabile
scena di The Matrix, Morpheus lo definisce “una prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore”.
Quel recinto è il sistema stesso in cui vivo. Un sistema disumano. Che antepone le esigenze dell’economia a quelle degli individui. Che esalta il benessere materiale e mortifica lo spirito. Che produce conformismo, tanto nelle idee quanto nei comportamenti, per non parlare della scelta del supertelefonino o della scarpa griffata. Che sfrutta le fasce umane più deboli. Che devasta le risorse ambientali. E che spaccia il tutto per Progresso.
Non so che farmene, di questa roba. Ora che l’ho capito, prendo la rincorsa, scavalco e me ne vado.
Sono un vero ribelle, adesso. Vaffanculo.

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